sabato 10 gennaio 2009

Post hoc, ergo propter hoc

Il temporale si annunciava già da qualche ora. Non era in questione se sarebbe stato intenso: a fine dicembre, piena stagione delle piogge, quando viene giù è sempre con la massima intensità. Come al solito la gente si era prudentemente ritirata per tempo, questa volta ringraziando Dio di aver potuto più o meno completare la giornata di lavoro, visto che ormai era quasi il tramonto.

Il piccolo centro di Tembisa si trova quasi esattamente a metà strada tra Johannesburg e Pretoria. L’espansione delle due grandi città lo assedia come una morsa, ma non ha ancora chiuso la sua stretta. Così Tembisa resta lì, in mezzo, come a voler marcare in anticipo il punto esatto in cui le due metropoli si sono date appuntamento per fondersi, un giorno ormai non lontano, in una sola. E in effetti questa posizione non è casuale: è cresciuto intorno ad un piccolo scalo ferroviario, piazzato lì proprio per servire l’area industriale, in passato soprattutto mineraria, che occupa lo spazio tra la capitale economica e quella politica del paese.

Indifferente al proprio destino il piccolo centro continua placido la sua vita, centrata sul grande spiazzo antistante la stazione, all’ombra del porticato di lamiera e pali di metallo e, ancor più, sotto il grande albero di merùla che abbraccia con i suoi rami quasi tutta l’ampiezza disponibile, garantendo ombra durante la giornata, sebbene non molta protezione in caso di pioggia. Qui si svolge la vita commerciale, sicuramente la parte più vivace e colorita, del piccolo centro abitato.

All’arrivo del temporale il barbiere, che per antico diritto rispettato da tutti occupa lo spazio più vicino alla base del merula, era già andato via da tempo: il suo lavoro richiede la piena luce del giorno e per questo è sempre tra i primi a ritirarsi verso fine pomeriggio. Anche gli altri, però, visto l’addensarsi delle nuvole, avevano anticipato la chiusura. Quelli sotto il porticato, che in pieno giorno non si sarebbero fatti condizionare dalla pioggia, al pensiero della strada che li aspettava, si erano affrettati.

Dalla finestra della sua stanza Tebogo, nove anni, guardava annoiato la scena. Da tempo la mamma gli aveva insegnato a non temere la violenza delle piogge estive. “Vedi, Tebzi”, gli diceva, “noi abbiamo la fortuna di abitare in una casa di mattoni, perché il papà lavora nella ferrovia. Una pioggia così è pericolosa per una baracca di lamiere e cartoni, come quelle che stanno oltre i binari, ma alla nostra casa gli fa solo il solletico”.

Dopo quella spiegazione Tebogo era sempre contento dei temporali, non tanto per il fatto di essere un bambino fortunato – questo era un concetto che non afferrava del tutto – quanto al pensiero di come doveva divertirsi la sua casa quando la pioggia le faceva il solletico.

Il papà invece gli aveva insegnato a non aver paura dei fulmini. Gli aveva mostrato come si ramificano in cielo, spiegandogli che anche le motrici dei treni, quando alzano il pantografo per agganciarsi alla linea elettrica, a volte producono un piccolo fulmine. Avevano contato insieme i secondi che trascorrono dal lampo al tuono, perché quanti più sono i secondi, tanto più lontano è caduto il fulmine: un chilometro ogni tre secondi, perché il rumore viaggia molto più veloce di un treno, gli aveva detto. Anche questo aveva occupato molte volte la fantasia di Tebogo: immaginava il tuono che arrivava a terra a cavallo del lampo e poi si lanciava velocissimo – dieci volte più di un treno! – per venire a far rumore proprio da lui.

Queste erano nozioni acquisite da tempo e raramente, ormai, tornava a contare i secondi dopo un fulmine. Ora Tebogo stava solo guardando oziosamente fuori della finestra, senza nessun pensiero e nessuna fantasia in particolare. Giocherellava con un rametto raccolto quel pomeriggio, mentre gli occhi vagavano sul panorama che conosceva a perfezione, in quella luce magica del tramonto che si insinua al di sotto delle nuvole scure, dando un rilievo speciale alla pioggia che cade: davanti a sé, oltre il piazzale, le basse baracche in mattoni rossi dei magazzini della ferrovia, a sinistra il portico della stazione, a destra – l’oggetto più vicino di quel ristretto panorama – la grande chioma del merula. Aveva osservato gli ultimi ritardatari che si affrettavano a cercare un riparo ed ora, nel pieno del temporale, mentre si faceva sempre più scuro, non aveva più niente da vedere.

Stava per abbandonare la sua postazione vicino alla finestra, quando tutto accadde nello stesso momento. In un certo senso accadde una sola cosa, ma quando poi si prova a raccontarla ci si deve necessariamente dilungare in tanti diversi particolari che accaddero tutti più o meno insieme, proprio perché parti di quella cosa che accadde. Accadde che, deciso a passare a qualche altra occupazione, Tebogo spezzò il rametto.

Non lo stava nemmeno guardando, il suo rametto: lo sguardo era rivolto al grande albero, proprio nel punto in cui dal tronco principale si staccava possente un ramo orizzontale, come un’architrave a sostenere quel tetto di foglie. In quell’istante, invece del prevedibile “cric” del legno spezzato, un boato violentissimo investì il bambino come un pugno, scuotendo tutta la casa e soprattutto la finestra, mentre una luce abbagliante invadeva tutto il campo visivo.

Il lampo di luce fu istantaneo, ma il rombo che accompagnò la prima esplosione tardò un certo tempo a disperdersi, o forse fu solo l’impressione delle orecchie assordate del bambino. Era scosso e sentiva un blocco nella parte alta del petto, subito sotto la gola, come se avesse voluto piangere o gridare senza riuscirci. Fuori, l’albero di merula bruciava in più punti e nella penombra della sera, moderatamente illuminata dai fuochi, Tebogo poté notare che il grande ramo orizzontale, proprio quello che stava guardando un istante prima, era crollato a terra lasciando sul tronco un grande squarcio bruciacchiato.

Si domandò se fosse stato lui. Il buon senso, sebbene di bambino, gli diceva che non era possibile, ma allo stesso tempo non gli dispiaceva la prospettiva di poter andare in giro scatenando fulmini. Era come tutti i suoi giochi: si immaginava cacciatore, o ferroviere, o soldato e lo era realmente per tutta la durata del gioco, pur sapendo, in un angolino della sua testa, che era solo fantasia.

Quando la madre accorse per vedere se si era spaventato, trovò il suo Tebzi tranquillo e leggermente sorridente, accanto alla finestra, intento a giocherellare con un rametto. Pensò orgogliosa di avere un figlio molto coraggioso. Lanciatore di fulmini, pensava intanto Tebogo, e immaginava le sue avventure.

***

“Post hoc, ergo propter hoc” è il titolo con cui gli antichi avevano etichettato un noto schema di ragionamento fallace. Certo, l’effetto viene sempre dopo — post — la causa, ma questo venire dopo non è da solo garanzia di un propter, di essere causato. Non tutto ciò che viene dopo è effetto di ciò che viene prima.

Nella teoria la cosa è molto semplice, anche un bambino di nove anni, senza conoscere la filosofia medievale, capisce che un rametto spezzato non provoca un fulmine. Ma bisogna anche ammettere che c’è
post e post, altrimenti come si fa a distinguere una causa da una coincidenza?

Il ricco cacciatore prende accuratamente la mira nel cannocchiale della sua carabina ultimo modello, accarezza delicatamente il sensibilissimo grilletto e spara. Subito, quasi contemporaneamente – ma pur sempre dopo, “post” –, il bel maschio di kudu (le lunghe corna ritorte ne faranno un magnifico trofeo) cade abbattuto.

A
causa del colpo.

Ripetiamo la scena. Il cacciatore prende la mira. Spara. L’antilope barcolla, fa qualche passo, poi cade. Di nuovo
a causa del colpo, forse meno preciso ma pur sempre causa della morte.

Di nuovo. Il cacciatore prende la mira. Spara. Lo splendido cornuto (senza offesa per il cacciatore) fugge via. Corre per alcuni minuti poi si calma e si ferma. Più tardi sta brucando placidamente l’erba della savana, quando all’improvviso qualcosa non va. Alza la testa, si immobilizza per un istante, poi si accascia. Tenta di rialzarsi, ma senza successo. Dopo breve agonia, muore.

È stato il cacciatore? Ha mangiato qualcosa di dannoso? Un virus che gli covava dentro ha scelto quel preciso momento per dare l’assalto finale?

Prima lo sparo, poi la morte. Ma se il post ritarda, si indebolisce il nesso. Anche una morte per vecchiaia, alcuni anni dopo quello sparo, sarebbe stata un post hoc, ma non avrebbe nessun valore.

Così quel fulmine: una frazione di secondo più tardi e sarebbe stata un’altra cosa. Ma se lo schianto e il lampo di luce si sovrappongono così perfettamente al normale schiocco di un legnetto che si spezza, al punto da poter immaginare che sia quella la sua espressione naturale, come se tutti i ramoscelli, quando vengono spezzati, producessero un lampo abbagliante e un’esplosione così forte da far tremare tutto nel raggio di molti metri... si capisce che c’è spazio almeno per fermarsi a fantasticare un po’.

E poi anche l’entità dell’effetto ha la sua importanza. Se un uccello tessitore prende il volo nell’esatto istante in cui mi tocco l’orecchio... a una cosa così non facciamo alcun caso. Gli uccelli tessitori vanno e vengono mille volte al giorno nel loro continuo lavoro di costruzione del nido e poi di alimentazione dei piccoli; il singolo evento di un prendere il volo non appare per nulla significativo. Altra cosa è un finimondo: quello avviene ben di rado e sicuramente non passa inosservato.


***

Un giorno di due anni dopo, Tebogo si prepara ad uscire di casa per raggiungere il suo rifugio preferito: una collinetta dietro la stazione da dove si domina tutta l’attività dello scalo ferroviario e dove, soprattutto, si può stare in pace. Prende dal frigorifero la bottiglietta di Oros che la mamma ha messo in fresco per lui e se la infila nella tasca posteriore dei pantaloncini; la sensazione di fresco lo invita a gustarsi lo sciroppo colorato quanto prima, perché la giornata è calda e se aspetta troppo diventerà imbevibile. Afferra il suo cappellino da pescatore, dal colore indefinito fra verde e marrone chiaro, inevitabile risultato dell’accanimento del sole sul tessuto, e fa per avviarsi.

Già sulla porta nota il gruppo di ragazzi che bighellonano all’ombra del merula, all’estremo del piazzale. Tebogo ha da tempo imparato ad evitare il più possibile quei ragazzi. Non capisce bene come succeda, ma gli sembra che ci sia qualcosa in lui che attiva invariabilmente l’aggressività di quel genere di persone. A volte si chiede perché i suoi compagni di scuola possono passare indisturbati – almeno il più delle volte – davanti a qualsiasi gruppo di ragazzacci, con la sola avvertenza di tirare dritto senza provocarli in alcun modo, e lui invece no. Perché, per quanto si sforzi di non farsi notare, di non fare nulla che possa richiamare l’attenzione, lui si ritrova sempre apostrofato, fermato o molestato? Hanno una specie di sesto senso, quelli lì, e percepiscono la presenza di uno come Tebogo già da lontano. Ne sono attratti come le mosche verso il biltong appeso a seccare.

Il piccolo sa di non avere scelta: se provasse a tagliare dritto verso di loro l’audacia gli costerebbe come minimo la perdita della sua bibita. Come altre volte si rassegna a fare il giro lungo, dietro le case. Si consola pensando che può sempre prendere qualche sorso di Oros già durante la salita.

Quando raggiunge la sua collinetta la questione della deviazione è già dimenticata. Il lavoro della ferrovia lo affascina ed è felice quando può trascorrere il pomeriggio a contemplarlo. Un giorno seguirà sicuramente le orme di suo padre lavorando nella ferrovia, prospettiva di cui il papà va apertamente orgoglioso. “Vedrete che il mio Tebzi diventerà capostazione”, dice con frequenza ai parenti.

Osserva le operazioni di scarico di tre vagoni scoperti pieni di casse. Ogni tanto beve. I vagoni vengono staccati dal treno e la piccola motrice diesel – quella che spesso manovra il suo papà – li ha trainati e poi spinti su un binario laterale. Poi gli uomini si sono messi a lavorare, lenti sotto il sole del primo pomeriggio. Alcuni in piedi sui vagoni, altri nella zona a ridosso del muro dei magazzini, dove vengono accatastate le casse, mentre due carrelli elevatori, fra tutte la macchina che Tebogo preferisce, fanno la spola con il carico.

Terminata la bibita, Tebogo poggia la bottiglietta tra i piedi scalzi. La fa rotolare un po’ avanti e indietro con la pianta del piede, poi fa per schiacciarla. Un gesto abituale, realizzato senza nemmeno guardare, l’attenzione rivolta ad un vagone per il trasporto di liquidi parcheggiato in disparte sul binario morto più remoto di tutto lo scalo. Da quanti giorni starà lì, quattro o cinque? I colori sbiaditi gli ricordano una gigantesca lattina di coca cola adagiata su un paio di carrelli.

E nell’esatto momento in cui il piede schiaccia la bottiglietta, proprio quel vagone cisterna esplode in una palla di fuoco. Una fiammata densa, non particolarmente luminosa nell’intensità della luce estiva, si espande rotolando lateralmente e verso l’alto. Un maestoso boato sovrasta completamente il modesto rumore di plastica accartocciata della bottiglietta, mentre l’onda d’urto raggiunge Tebogo abbracciandolo in un caldo spintone.

In basso gli uomini si agitano come le formiche quando con un calcio gli scoperchi il formicaio, mentre la palla di fuoco lascia il posto a fiamme alte che producono una densa colonna di fumo nero. Ma l’attenzione di Tebogo è sulla bottiglietta che ha schiacciato. Gli torna in mente quella sera di due anni prima, il lanciatore di fulmini, mentre rivede mentalmente tutti i particolari dello spettacolo cui ha appena assistito.

Si avvia verso casa, rigirando tra le mani la bottiglietta accartocciata. Attraversa senza pensarci il gruppo dei bulletti, un lanciatore di fulmini con in mano la sua arma potente. I ragazzi, che stavano commentando agitati l’esplosione appena sentita, si fermano e lo guardano passare.

Per la prima volta non gli dicono nulla.